Odissea in vagone letto

Devo tornare a Milano, dopo l’appuntamento di lavoro in Puglia protrattosi sino al tardo pomeriggio. L’indomani ho un’udienza in Tribunale alle 10 e, quindi, l’unico mezzo di trasporto possibile per il ritorno è il treno. Anzi, meglio, il vagone letto. La mia collega e io troviamo due cabine contigue, in prima classe, al costo di 147,70 Euro ciascuna. Apriamo la porta comunicante e così dalle 22.30, ora della partenza, fino a mezzanotte circa possiamo confrontarci su alcune questioni giudiziarie urgenti. Nel frattempo non ci sfuggono la vetustà imbarazzante e la sporcizia di una sistemazione che costa quanto una camera d’albergo, non di lusso ma almeno a quattro stelle. La tendina di plastica del finestrino, una volta forse beige, ha un colore variabile tra il grigio e il marrone, con punte diversificate di nero negli angoli e lungo le cuciture. Lo sportellino che alloggia gli asciugamani non si chiude e, pertanto, funge da sollecitatore dell’attenzione ogni volta che il treno ha un sussulto. Le due mezze bottiglie di acqua, comprese nel prezzo, hanno una temperatura molto vicina a quella che immagino possa essere tipica delle pozzanghere dopo qualche ora da un temporale estivo. Con grande sussiego il responsabile della nostra carrozza ci chiede che cosa desideriamo per la colazione del mattino dopo. Siamo timorose di sperimentare in quello scenario, tuttavia ordiniamo the e caffè con ammenicoli della casa. A mezzanotte spegniamo la luce, dopo avere usato metà dell’acqua minerale calda per lavarci i denti ed esserci fatte un non programmato scrub con gli asciugamani in dotazione, ruvidi e odorosi di panni cotti. Alle quattro siamo svegliate da un rumore secco e lacerante: qualcuno ha tentato di aprire, scardinandola, la porta della cabina in cui dorme la mia collega. La porta è semi divelta e rivela dalla larga feritoia la luce del corridoio. C’è un silenzio allarmante ma, con la furbizia della paura, ci guardiamo bene dall’aprire l’altra porta e, anzi, supponendo un tentativo di rapina, premiamo a più riprese i pulsanti che sembra dovrebbero avvertire il responsabile della carrozza. Non succede niente. Forse i campanelli non funzionano. Forse il nostro “custode” è stato tramortito dai rapinatori? E se è così, che ne è stato di tutti gli altri nostri compagni di viaggio? Una cosa è certa: la porta non la apriremo mai, ma che ne facciamo di quella diventata ormai inutilizzabile e, comunque sia, precaria? Basterebbe un altro strattone dei malintenzionati per farci trovare alla loro mercè. All’opera come fossimo protagoniste di “Assassinio sull’Orient Express”, molto caute e terrorizzate, parlandoci sottovoce e tenendo stretta e tirata la maniglia della porta violata, trasferiamo il bagaglio della mia collega nella mia cabina e poi richiudiamo la porta di comunicazione tra le due. Ora ci troviamo entrambe sul mio letto, in uno spazio angusto, con doppio bagaglio, senza l’acqua necessaria ad attutire la gola secca per la paura, senza sapere che cosa sia successo e che cosa potrebbe succedere. Decido di organizzare meglio la difesa: ci mancano cinque ore di viaggio, dormiremo a turno accovacciandoci ciascuna nella metà letto in verticale (in orizzontale è impossibile sdraiarsi in due) e blocchiamo meglio la porta che non è stata ancora aggredita. Faccio emergere dalla valigia foulards e cinture, le leghiamo strettamente l’una con l’altra, come fanno i prigionieri con le lenzuola nei tentativi di evasione. Questo lungo e solido nastro viene passato attraverso le maniglie e poi in alto intorno alla ringhiera del vano portavaligie e poi, in un percorso fantasioso e accidentato, bloccato al rubinetto e al pesante coprilavandino. Valigie, computer e borse da lavoro vengono ammonticchiate, a farne una trincea, alla porta rimasta per ora inviolata. Ci muniamo di spray per i capelli, forbicine e qualsiasi oggetto contundente riusciamo a scovare, per essere pronte all’assalto. Per fortuna non succede più niente, ma neppure che noi dormiamo. Alle 7.30 avvertiamo un po’ di movimento, percepiamo una puzza disgustosa di pseudo-caffè e dunque, con circospezione e batticuore, apriamo la porta. Mi imbatto subito nell’ineffabile e riposatissimo custode dei sonni altrui e gli racconto l’accaduto. Non si scompone: “lo so. Capita sempre”. Allibita apprendo poi da altri viaggiatori che sono stati derubati dopo essere stati addormentati dall’etere, probabilmente spray, probabilmente introdotto dalla fessura della loro porta aperta al primo colpo secco dei rapitori. Il secondo colpo serve loro per entrare e derubare gli inermi dormienti. Chiedo al capo carrozza perché lui non sia stato vigile e non abbia cercato di evitare un fatto che, a suo stesso dire, è prevedibile. Mi risponde che il suo contratto non prevede la funzione di bodyguard. Arrivata a Milano, distrutta dalla notte insonne, assetata, con mal di schiena incipiente, un po’ traumatizzata dal pericolo per quanto scampato, e soprattutto nauseata dagli odori inquietanti di una prima colazione punitiva, mi affretto all’ufficio della Polfer per denunciare l’accaduto. Tre poliziotti chiacchierano tra di loro, chiedo permesso e dico che voglio esporre l’accaduto. Continuano a commentare la partita del Milan di qualche giorno prima. Insisto. Mi dicono di aspettare circa ¾ d’ora. Mi qualifico, spiegando che di lì a mezz’ora devo partecipare a un’udienza. Mi chiedono, un po’ seccati, l’elenco della refurtiva. Spiego che la rapina l’ho evitata per un pelo. Finalmente ho destato il loro interesse e probabilmente la loro gioia di ricominciare presto a parlare di calcio: “Beh, avvocato, allora è tutto risolto. Non c’è denuncia da fare. Il tentativo di rapina non è reato (?) e lei non ha perso niente”. A questo punto ce l’ho col Ministero dei Trasporti, col Ministero dell’Interno e mia avvio rapida ma preoccupata verso il Tribunale per sapere che sorpresa mi riserva il Ministero della Giustizia. E poi affermano che non bisogna dire “Piove governo ladro”.