Le “quote rosa”? Un flop economico

Ho sempre pensato e detto che le quote rosa non costituiscono un incentivo, né per l’azienda né per il lavoratore. Tantomeno per la donna. Che, anzi, dovrebbe sentirsi mortificata per essere ancora considerata una specie da proteggere. Peraltro malamente. I risultati danno ragione a questo pensiero, che potrebbe essere giudicato un assioma antifemminista e conservatore. Invece non lo è. La dignità della donna, dopo secoli, di asservimento al maschio, sta nell’essere trattata giuridicamente e socialmente in modo uguale al maschio. Il diritto al lavoro viene onorato se alla donna sono concesse le medesime opportunità che all’uomo. Ma non opportunità di arrivo, bensì di partenza. Nel mezzo deve starci il merito personale, il senso del dovere, la flessibilità caratteriale e tante altre qualità che fanno la differenza tra una persona e l’altra; non tra un maschio e una femmina. Una volta conquistato il diritto allo studio, gratuito finché possibile e garantito per legge dai genitori qualunque sia il sesso dei figli, la donna deve potersi progettare la vita e conquistarsi il posto di lavoro con le sue sole forze. Ripeto: per merito delle competenze personali e non per opportunità elargite dall’alto e contro il principio di uguaglianza, che non può andare a detrimento di un uomo. Le donne inserite in un’azienda, solo per coprire posti loro garantiti, non è detto che si comportino nell’interesse degli obiettivi aziendali, ma non è detto neppure che non siano meritevoli. In ogni caso sono viste con diffidenza dai colleghi e certamente l’armonia del luogo di lavoro può essere pregiudicata da dinamiche equivoche e poco produttive. L’invidia è il senso di ingiustizia incidono di sicuro negativamente sulla produttività e sulla serenità aziendale. Basti vedere, ad esempio, quello che è successo in politica, volendo applicare gli stessi criteri. Alcune donne sono state massacrate da critiche, anche se meritevoli; altre hanno sfruttato la situazione per non dare nulla al paese e coltivarsi il proprio orticello. Tale è l’invidia tra femmine (e il terrore, di molte, di perdere le proprie esclusive garanzie) che è stata biasimata la Gelmini proprio perché ha annunciato di non voler profittare della maternità per starsene in congedo. A parte il fatto che già esiste dal 2000 la legge sul congedo di paternità, ma la maggior parte dei padri continua a volerla ignorare, ciò che le donne serie e oneste vorrebbero, non è la cooptazione per legge in un posto di lavoro, ma l’opportunità, dopo essersi da sole meritate il posto, di avere servizi non costosi a sostegno dei periodi di maternità. Se non c’è la collaborazione del partner, il nido pubblico per tutti, la possibilità di deduzione fiscale del costo di sostegno dei figli (colf, baby sitter, nidi privati), il luogo di lavoro, ricevuto in donazione, diventa di per sé una mina vagante. Che scoppia nei bilanci delle aziende e ferisce a morte le donne. Quelle che subiscono la frustrazione di vedere i colleghi maschi, nel frattempo, in carriera, anche se meno bravi ma più presenti, e quelle che – più rispettose del lavoro che della famiglia – si sentono in colpa per dover trascurare i figli. Il godimento è solo delle parassite, perchè non appena “conquistato” il regalo del posto assicurato, ne abusano per la licenza di matrimonio, la gravidanza e il funerale di ogni parente. A danno del datore di lavoro, rispettoso di norme di legge apparentemente non discriminatorie; il quale vede aumentare i costi del personale, diminuire la redditività e deteriorarsi le relazioni personali tra dipendenti. Ma a danno anche delle famiglie: sgangherate, con figli allo sbando, madri disperate e padri serenamente in carriera. Alla faccia delle quote rosa. Sono ridicole e pericolose, dunque, le leggi, di grande suggestione politica, prive della possibilità di applicazione pratica. Se non ci sono servizi opportuni a supporto del cosiddetto “diritto lavorativo” – inteso nel senso voluto dalle quote rosa – si apre uno scenario sociale inquietante, nel quale valgono in prevalenza principi egoistici e parassitari, a svantaggio del merito e della dignità dei lavoratori. Ma soprattutto delle lavoratrici stesse. In nome della legge.