Capirai solo quando sarai madre anche tu

Una coppia di terapeuti francesi, i Messinger, ha pensato e scritto un libro di grande attualità “Tra madre e figlie. Le parole che uccidono” ediz. Sonda. Perché d’attualità? Perché nell’ultimo trentennio il rapporto affettivo e le dinamiche generazionali sono molto cambiati e, forse, tra mamme e figlie in modo ancora più sensibile. Pur mantenendosi, però, una sorta di lessico familiare che, non solo resiste ai tempi, ma, addirittura, sembra uguale in tutto il mondo. Per esempio, suggeriscono gli autori del libro, le sintomatiche apodittiche affermazioni: “questa casa non è un albergo”, “quando avrai la tua casa farai ciò che vorrai”, “quando sarai madre finalmente capirai”, ma anche “E’ per il tuo bene”, “gli uomini non valgono niente” e, soprattutto, “Dopo tutto quello che ho fatto per te”. Frasi di rabbia, ribellione, irriconoscenza. Se solo pensiamo, tuttavia, alle figlie degli anni cinquanta, prive di diritti e subordinate agli uomini e alle famiglie, percepiamo subito il diverso contesto in cui le stesse frasi risuonano oggi, quando si esprimono anche tra ragazze sessualmente libere e madri plasticate e in carriera. Ciò nonostante, e questa sembra essere la tesi del libro, le parole incriminate possono avere, anzi hanno, la potenza di proiettili velenosi che si abbattono con violenza su un legame emotivo che dovrebbe garantire solidarietà e reciproco nutrimento. Probabilmente il dissenso, a volte non solo formale, nasce dalla lotta intestina, e magari anche inconsapevole, tra due donne che lottano per il privilegio di essere la preferita dell’uomo di casa. O anche dalla competizione della figlia e dall’invidia della madre, aspirando entrambe ad apparire, nel confronto, la più socialmente desiderabile. Fatto sta che queste dinamiche non emergono, quando il rapporto materno è col figlio maschio. Il quale, semmai, in analoghi termini, deve vedersela col padre. Se c’è, se è presente, se è autoritario o passionale. Essere madri perfette, come vorrebbero psicologi e psichiatri, è impossibile. Loro lo sanno bene e ne sono quasi contenti, perché sanno anche, così, di non correre il rischio di rimanere privi di argomentazioni terapeutiche. Tuttavia, tra il modello impossibile e le frequenti mamme assassine, esiste una quasi infinita varietà di figure materne, positive e negative, costruite ogni giorno nell’imperfezione e nella fragilità dell’amore materno. Che è pur sempre un sentimento, quindi mutevole e ingannevole, influenzato dai propri bisogni, dall’ambiente e dalla capacità individuale. La figlia, di conseguenza, non può che essere il risultato di tutte queste personalissime variabili. Se poi aggiungiamo al ruolo materno il carico da novanta che gli viene dal mito, per cui la madre vera è annullamento di sé, dedizione illimitata e sacrificio, possiamo ben capire come sia facile per una madre sentirsi inadeguata e vittimizzarsi. E, dunque, ripetere alla figlia “Vedrai quando sarai madre tu” oppure “lo faccio per il tuo bene”. Ma possiamo anche giustificare la figlia, che risponde “chi te l’ha chiesto?”; una figlia che oggi vive nell’epoca della pillola anticoncezionale, della libertà come mantra vitale, dell’egoismo esistenziale. Teniamo conto poi che, accanto alle mamme “sufficientemente buone”, ci sono mamme che sbagliano, che non amano, che non vogliono capire; mamme viziate, aride o maltrattanti. Tutte, prima o poi, pronunceranno alle figlie le stesse identiche frasi, ricevendo risposte modulate sul tipo di trattamento materno da loro percepito. Nel bene e nel male, non manifestando, in quelle occasioni, né apprezzamento né gratitudine. Perché così va la vita, finché da figlia non si diventa madre e il mondo interiore si ribalta. A volte. Non sempre. Credo, in conclusione, che bisognerebbe interrompere questa acre catena generazionale e, addirittura, mondiale, affidando alla cultura il ruolo di ridimensionare la figura materna, subito liberandola dal peso del mito della maternità come perfezione e sacrificio. Suggerendo, invece, alle donne, mamme e figlie, una maggiore generosità e curiosità per l’amore paterno. Sempre che si trovino uomini in grado, non di fare i padri-padroni, non di essere perpetuamente loro stessi figli, non di interpretare il ruolo in termini ludici ed estemporanei e, tantomeno, mammistici ma, di essere creatori e portatori di un sano, concreto, autorevole, stabilizzante, importante amore paterno.